Europa e nazione, le parole in politica sono importanti

La destra ne fa uno stile, la sinistra dice Paese, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. Fa venire in mente i bolli, le code, le tasse. Lo Stato è sempre altro rispetto a noi

La parola chiave di Giorgia Meloni è nazione. «Questa nazione» ha ripetuto per due volte nel brevissimo discorso all’uscita del Quirinale. «Nazione» è il motto ricorrente dei ministri dopo il giuramento. Non è difficile prevedere che la stessa parola riecheggerà più volte nell’intervento al Senato e alla Camera della prima donna presidente del Consiglio.

Le parole sono importanti. In particolare quelle con cui si indica l’Italia. La sinistra dice di solito «questo Paese»; e più è radicale, populista, indignata, più calca l’accento su «questo», come a dire che l’Italia è altro rispetto a loro, e gli italiani (come da titolo dell’ultimo libro di Francesco Cossiga) sono sempre gli altri.

Un vecchio poster di An diceva: «Prima eravamo in pochi a dire la parola patria, ora siamo la maggioranza». Non era un poster sbagliato. Ci fu un tempo in cui patria era una parola connotata a destra; ora la usano un po’ tutti. Decisivo è stato il grande lavoro politico-culturale di Carlo Azeglio Ciampi, che sul recupero della patria e dei suoi simboli — l’inno, il tricolore, financo il famigerato Vittoriano, che in realtà è bellissimo — ha costruito il proprio settennato. Ciampi dimostrò che la patria, frettolosamente data per morta dopo l’8 settembre 1943, era invece radicata nel cuore degli italiani; a cominciare proprio da coloro che all’indomani dell’8 settembre si batterono a Cefalonia contro i tedeschi, dando inizio alla Resistenza. L’idea della Resistenza plurale, e non «cosa di sinistra», è entrata o meglio rientrata nella discussione pubblica proprio con Ciampi. E il presidente, visitando El Alamein e gli altri campi di battaglia, ha restituito dignità e onore ai combattenti della Seconda guerra mondiale, tra i quali lui stesso; in Albania il giovane tenente Ciampi se la vide brutta, e amava ricordare che gli alpini della Julia — motto: «Mai daur», mai indietro — avevano salvato una spedizione mal preparata e peggio comandata, immolandosi sul Pindo per dare il tempo agli altri soldati italiani di ripiegare.

Ma patriottismo non è sinonimo di nazionalismo. «Il nazionalismo è la guerra» diceva un altro presidente che la guerra l’aveva conosciuta, François Mitterrand (caduto con il suo reparto nelle mani dei tedeschi dopo il crollo francese, per tutta la vita concesse il tu solo ai compagni di prigionia). E ancora oggi il nazionalismo estremo ha acceso una guerra sui confini orientali d’Europa.

Ovviamente Giorgia Meloni usa la parola «nazione» in un’altra ottica. Nessuna obiezione, se il senso è dire che l’unità italiana è indissolubile, con buona pace di nordisti e sudisti, dei vecchi leghisti che ancora sognano se non la secessione un’autonomia totale, e dei neoborbonici secondo cui la colpa dei mali del Sud è del Nord. Ma se il senso è contrapporre la nazione italiana, che tutti o quasi amiamo, alle altre nazioni europee, allora le obiezioni sono legittime. A cominciare alla prima: l’interesse nazionale, giustamente caro alla Meloni, in questa fase storica non passa certo per la contrapposizione con l’Europa. Anzi.

La costruzione europea doveva servire a un italiano a non sentirsi straniero a Berlino, a Madrid, a Parigi; il che non vuol dire solo andare nelle altre capitali senza passaporto e senza dover cambiare valuta, ma percepire la nostra nazione come ormai indissolubilmente legata alle nazioni tedesca, spagnola, francese; nella prospettiva di unirle in un’unica nazione europea. In Francia si è votato pochi mesi fa per scegliere tra un presidente che fa suonare l’Inno alla Gioia prima della Marsigliese, e una candidata che aveva annunciato di voler togliere le bandiere europee, perché non intendeva «governare una regione d’Europa». Giorgia Meloni da che parte sta? Dalla parte di Emmanuel Macron, che ha vinto — sarà il primo capo di Stato che incontrerà —, o da quella di Marine Le Pen, che ha perso?

Contrapporre una nazione all’altra non porta lontano; e non solo perché senza l’armata francese, vincitrice a Magenta e a Solferino a prezzo di migliaia di morti, la nazione italiana non esisterebbe; e forse non sarebbe sopravvissuta senza i fanti francesi e inglesi schierati sul Piave dopo Caporetto (anche se la prima resistenza sul fiume si deve ai nostri nonni). Certo, dall’Europa gli inglesi si sono chiamati fuori; ma siamo sicuri che abbiano fatto un affare?

Se dire «nazione» significa essere consapevoli e orgogliosi di noi stessi, bene; se significa considerare l’Europa una sovrastruttura burocratica da cui guardarsi, va meno bene. E non è comunque nell’interesse di un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di debito pubblico, finanziato dalla Banca centrale europea, posseduto per almeno il 10% dagli investitori francesi, e di fatto garantito dai tedeschi, che hanno accettato il debito comune del Pnrr e prima o poi accetteranno di farne altro per vincere la battaglia dei prezzi. A maggior ragione ora che i tassi tornano a salire, e aumenta il costo del denaro, l’Italia ha bisogno dell’Europa come non mai. E fino a quando gli europei non eleggeranno tutti insieme il loro presidente, gli egoismi nazionali — lo dimostra proprio in questi giorni la Germania — saranno sempre destinati a prevalere. Come dice uno dei mentori di Giorgia Meloni, Vittorio Feltri, nel condominio europeo noi siamo l’inquilino moroso: l’ultimo che può alzare la voce.

In sintesi: la sinistra dice Paese, la destra dice nazione, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. Fa venire in mente i bolli, le code, le tasse. Lo Stato è sempre altro rispetto a noi: il poliziotto è lo sbirro, il Palazzo di Giustizia il Palazzaccio. Forse la nuova destra di governo dovrà occuparsi anche di questo.

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